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CONDANNATO A MORTE
(DEAD MAN WALKING)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 marzo 1996
 
di Tim Robbins, con Sean Penn, Susan Sarandon (Stati Uniti, 1995)
 
Susan Sarandon e Sean Penn nel film
"Uomo morto in marcia", urlano i secondini della Lousiana quando un condannato a morte lascia la sua cella per incamminarsi verso il patibolo. È uno dei tanti aspetti del rituale, una delle soddisfazioni ricorrenti che la società si concede quando freddamente, lucidamente si vendica dei delitti. Ed è anche uno degli acuti di CONDANNATO A MORTE: un film che - come tutti quelli sulla pena di morte - non può non colpire lo spettatore al cuore, ed alla mente.

Poiché si tratta di un argomento pericoloso da abbandonare all'istinto ed al sentimento, credo sia solo affidandosi al raziocinio, diffidando dell'emozione, che tutto l'orrore ed il nonsenso dell'uso deliberato e calcolato della morte contro la morte riesca ad evitare i falsi dibattiti. Tim Robbins, l'attore simpatico dalla faccia antipatica dei film di Robert Altman che aveva già girato un primo film serio ed anticonformista, BOB ROBERTS, conferma ora l'impegno; ma mira proprio al cuore. È un ottimo direttore d'attori (Sean Penn, arrogante quanto basta perché lo spettatore non simpatizzi, è bravissimo; e Susan Sarandon, al solito sensibilissima nel rendere evidente ogni turbamento del proprio animo) e non si lascia distrarre da questi due poli d'attrazione: la rappresentante del bene che incontra l'impersonificazione del male. Ma il suo film asciutto come di dovere ha un limite ben preciso: si fonda sulla recitazione, coglie le mimiche sensibilissime (ma pur sempre tali: quelle che vi fanno dire, ma guarda come è bravo Sean Penn a quasi piangere, sembra abbia pure lui soltanto dodici minuti di vita) di attori che compiono il proprio dovere di fingere. La sua regia non entra mai - per imprimere i suoi segni indelebili, quelli si, eterni - nel conflitto delle emozioni, nel dibattito delle parole: e non a caso i momenti migliori sono quelli del finale, quando finalmente si guarda attorno, quando i tasti colorati della macchina della morte diventano mille volte più significativi di tante parole, attitudini ispirate.

Affidarsi alla teatralità, ai testi piuttosto che ai segni della scrittura cinematografica comporta allora inevitabilmente dei rischi: che sono quelli dell'ambiguità. Come quando si lascia intendere soltanto di una redenzione confessionale, di una visione religiosa, di sentimenti cristiani. Certo, più che legittimi: soprattutto se ci ricordiamo che si tratta della vicenda capitata ad una suora. Ma la stessa relatività formale del film di Robbins ne traduce allora un'altra, più grave perché etica e morale Ed è quando dimentica come esiste anche una logica laica, una pietà che dev'essere di tutti gli uomini. Anche, o soprattutto, dei non credenti.

Privato di questo aspetto - proprio come quello di un vero sguardo registico - quello apprezzabile e civile di Tim Robbins rimane - ed è già qualcosa - solo tale.


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